L’incontro con l’occidente

glifi catherwood von hagen2

Per i tre secoli successivi all’arrivo dei conquistadores le testimonianze scritte riguardanti le popolazioni mesoamericane che giunsero in occidente erano di due categorie: quelle inviate dagli emissari laici al Re di Spagna e quelle dei funzionari ecclesiastici. Gli scritti degli emissari spagnoli riguardavano principalmente i resoconti sulla conquista e sull’opera di colonizzazione del Nuovo Mondo, anche se spesso venivano accennati alcuni particolari riguardanti la cultura delle popolazioni locali. Lo stesso Hernan Cortés, comandante della spedizione di conquista dell’impero azteco, in una lettera inviata alla Corona Spagnola il 30 ottobre 1520 spiega il funzionamento amministrativo per il pagamento dei tributi. Nella lettera il militare spagnolo accenna anche al sistema di scrittura descrivendolo come formato da “caracteres y figuras”:

[…] Nei domini di questi signori [Moctezuma, Ndt] aveva dispiegato le sue forze, in quelle gente al suo servizio, nei suoi governatori ed esattori di servizi e rendite che ogni provincia gli versava, e c’era il conto e l’ordine di ciò che ognuno era costretto a versare, perché hanno caratteri e figure, scritte sulla carta da loro prodotta, e attraverso le quali essi si capiscono.1

L’indecifrabilità di questi caratteri e soprattutto il fatto che non avessero una corrispondenza fonetica come accade con le lettere europee, fece però credere più a delle illustrazioni finalizzate a tenere a memoria determinati eventi piuttosto che ad una vera e propria scrittura. Questa considerazione parve anche ribadita dal riconoscimento sui testi scritti di alcuni glifi che i conquistatori spagnoli avevano già visto come emblema delle città visitate in precedenza.

L’opera dei missionari ecclesiastici non fu di minore impatto per le popolazioni indigene rispetto a quelle laiche e le testimonianze degli ecclesiastici che erano stati inviati nelle Americhe per convertire al cattolicesimo le popolazioni indigene, sono molto importanti per comprendere la visione della civiltà Maya che ha attualmente la cultura occidentale.

La figura più importante a questo proposito è quella del frate francescano Diego De Landa, poi nominato terzo Vescovo dello Yucatan. L’ecclesiastico era stato inviato nel Nuovo Mondo subito dopo la spedizione di Montejo il Giovane con la missione di evangelizzare le popolazioni maya. La sua reazione alle resistenze delle popolazioni locali ad abbracciare il cattolicesimo portò prima all’arresto di numerosi governatori indigeni ed in seguito all’esecuzione di un autodafé nell’importante città maya di Manì. Durante questa cerimonia che avvenne il 12 luglio 1562, vennero distrutti idoli, stele ed altari e venne dato l’ordine di bruciare tutti i libri scritti con caratteri maya2. Come riportato da Longhena il religioso descrisse così la sua opera: “Abbiamo trovato molti libri scritti con il loro alfabeto, il cui contenuto altro non era che menzogna e superstizioni diaboliche, e li bruciammo tutti, causando loro dolore e tristezza3. All’azione di estirpazione delle false credenze degli ecclesiastici spagnoli sopravvissero soltanto quattro codici geroglifici. Solo successivamente, forse anche per redimersi agli occhi di Re Filippo II di Spagna, De Landa si dedicò allo studio della civiltà che aveva duramente combattuto e nel 1566 compilò la Relacion su las cosas de Yucatàn in cui riportò quanto da lui appreso sulla civiltà maya. La Relacion di De Landa restò depositata negli archivi di Madrid fino al suo ritrovamento da parte dell’abate francese Brasseur de Bourbourg nella seconda metà dell’Ottocento.

A seguito delle azioni di Conquistadores ed ecclesiastici europei le usanze tradizionali delle popolazioni indigene riguardanti le pratiche divinatorie e terapeutiche ed i riti legati all’agricoltura sopravvissero in clandestinità, contaminandosi spesso con la cultura spagnola. Un esempio della fusione delle due culture ci viene dato dalla scrittura che passò, con il tempo, dall’uso dei glifi all’utilizzo delle lettere latine. I codici maya venivano spesso scritti su supporti vegetali facilmente deteriorabili e rendevano necessaria la loro ricopiatura dopo un determinato numero di anni. Alcuni di questi codici, come il Popol Vuh ed i Libri di Chilam Balam che sono arrivati fino a noi, con il passare del tempo, iniziarono ad essere trascritti mantenendo la lingua maya ma utilizzando le lettere alfabetiche dei conquistatori.

Continua su “La profezia maya. Ermetismo, New Age e Mezzi di Comunicazione“.

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Note:

1 A.T. Cid Jurado, Il glifo mesoamericano come problema di interpretazione e di traduzione culturale: il caso Nahua Mexica, Università di Bologna, Tesi di Dottorato in Semiotica 1998-99, p. 28. Traduzione italiana di A.T. Cid Jurado, corsivo mio.

2 Come riporta Maria Longhena i libri geroglifici che vennero bruciati furono trenta,Scrittura maya. Ritratto di una civiltà attraverso i suoi segni, 1998, Milano, Mondadori, p. 11.

3 Charles Etienne Brasseur de Bourbourg, Relation des choses de Yucatan de Diego De Landa, texte espagnol et traduction française en regarde par l’abbé Brasseur de BourBourg, 1864, Paris, Arthus Bertrand.