La decifrazione dei glifi maya

La prima vera decifrazione della scrittura glifica fu compiuta dal bibliotecario di Dresda Ernst Forstemann nella seconda metà dell’Ottocento. Confrontando i glifi riprodotti sull’antico codice, che dal 1744 era conservato presso la sua biblioteca, con quelli illustrati da Catherwood (fig. 5) giunse alla conclusione che il Codice di Dresda proveniva dall’America Centrale, e che con ogni probabilità si trattava di uno scritto maya.

Alcuni glifi avevano inoltre una particolarità: riproducevano in una posizione variabile i numeri individuati da Rafinesque (fig. sotto). Utilizzando questo metodo di conversione e la Relacion di De Landa come riferimento, dopo un lavoro proseguito per 14 anni, nel 1880, riuscì ad interpretare i meccanismi di misurazione del tempo utilizzato dai Maya che si basava sulla correlazione di tre diversi calendari: due rispettivamente di 260 e 365 giorni ed un terzo con un anno di 360 giorni per le misurazioni di periodi più lunghi. Considerando che gli antichi Maya erano soliti indicare la data in cui le stele venivano scolpite diventava così possibile datare le iscrizioni ritrovate dagli archeologi. Oltre a questo risultava anche evidente la notevole rilevanza attribuita al computo del tempo.

Tuttavia non c’erano ancora sufficienti elementi per poter interpretare i glifi incisi sulle stele. L’utilizzo di un sistema di datazione poteva essere utilizzata per diversi scopi che non necessariamente dovevano coincidere con quelli religiosi o divinatori rappresentati nei codici geroglifici. Restava inoltre il grande problema delle iscrizioni prive di datazione.

Esempio sistema di numerazione maya

Un altro importante contributo per risolvere questi problemi fu fornito dagli studi dell’archeologo tedesco Paul Schellhas che, nei primi decenni del Novecento, identificò all’interno dei Codici maya i nomi di alcune divinità. Grazie al confronto con alcuni reperti archeologici nei primi decenni del XX secolo ipotizzò che i testi trattassero principalmente di avvenimenti storici e di mitologia.

Nel 1952 fu il sovietico Yuri Knorozov, giovane ricercatore dell’Accademia delle Scienze di Leningrado, a dare una svolta nell’interpretazione della scrittura maya. Riprendendo gli scritti di De Landa, non presi in considerazione dagli studiosi che lo avevano preceduto, capì l’errore commesso dal Vescovo spagnolo nel correlare i glifi a delle lettere anziché a delle sillabe. Knorozov ipotizzò che l’alfabeto di De Landa fosse in realtà un sillabario. Questa teoria venne confermata empiricamente confrontando i glifi corrispondenti ai nomi degli animali che ancora venivano utilizzati nei dialetti maya dello Yucatan e riuscì ad identificare circa 300 glifi. Constatò quindi che il numero di segni utilizzato dai Maya era troppo modesto per un tipo di scrittura ideografica, ed allo stesso tempo troppo elevato per una scrittura fonetica. Egli giunse quindi alla conclusione che si trovava di fronte ad un sistema di scrittura misto, in parte ideografico ed in parte fonetico, simile a quello egiziano.

L’epigrafista Heinrich Berlin, nel 1958, riuscì ad individuare i “glifi emblema”. Ogni centro maya aveva un suo “glifo emblematico”, ovvero un glifo distintivo che rappresentava la città e la dinastia che vi regnava. Secondo un’opinione molto diffusa negli anni Cinquanta, che analizzeremo dettagliatamente nel capitolo 2.3, i Maya erano un popolo sostanzialmente pacifico. Thompson, ad esempio, afferma che le incisioni per mezzo di glifi rappresentativi scolpiti in bassorilievo su stele in pietra calcarea servissero principalmente “per supplicare gli déi, per glorificare i governanti della comunità e per sfogare quella straordinaria preoccupazione che è il trascorrere del tempo”. Di diversa opinione era invece l’architetto ed archeologo statunitense di origine sovietica Tatiana Proskouriakoff, recatasi in Messico per effettuare studi riguardanti l’evoluzione degli stili architettonici e artistici maya. Analizzando alcune stele nel sito archeologico di Piedras Negras la Proskouriakoff scoprì che le date delimitavano periodi di sessant’anni, all’incirca la durata media della vita umana. Grazie alla rilevazione delle date dei monumenti riuscì a dimostrare che queste contrassegnavano vicende storiche e belliche dei personaggi che vi erano indicati, spesso sovrani e sacerdoti delle città.

Con il contributo di queste ricerche si riuscì a definire e comprendere che i glifi maya potevano rappresentare sia logogrammi, cioè simboli unici rappresentanti una parola intera, che sillabe con valore fonetico. La complessità della scrittura maya è data dal fatto che ogni parola poteva essere scritta in tre modi diversi: in modo ideografico, con un sistema misto fonetico-ideografico oppure in modo fonetico.

Esempio di scrittura glifica della parola Balam (giaguaro): 1) Balam- ideografico; 2) Ba-Balam- fonetico-ideografico; 3) Ba-la ma- fonetico.
Esempio di scrittura glifica della parola Balam (giaguaro): 1) Balam- ideografico; 2) Ba-Balam- fonetico-ideografico; 3) Ba-la ma- fonetico. (fonte Maria Longhena)

Attualmente è stato decifrato circa l’ottanta per cento di tutti i glifi conosciuti. Al miglioramento di questo risultato stanno oggi lavorando i maggiori epigrafisti statunitensi ed europei, tra i quali si possono citare Linda Schele, David Stuart, David Friedel, Michael Coe e Nicolay Grube.

 

Bibliografia:
J. Eric S. Thompson, The Rise and Fall of Maya Civilisation, 1966, in Italia La civiltà maya, ed. 1994, Torino, Einaudi.
Berthold Riese, Die Maya Geshichte- Kultur- Religion, München, Beck, trad. it. I maya, 1995, Il Mulino, Bologna, 2000.
Maria Longhena, Scrittura maya. Ritratto di una civiltà attraverso i suoi segni, 1998, Milano, Mondadori
Victor W. Von Hagen, Search for the Maya- The Story of Stephens and Catherwood, 1973, trad. it. Alla Ricerca dei Maya. I viaggi di Stephens e Catherwood, Torino, Rizzoli Editore.
Parodos, http://www.parodos.it/scrittura/8.htm.